Il Saturday Morning Live è un ciclo di incontri condotti dal Dott. Bruno Surace, volto a esplorare grazie all’intervento di ospiti d’eccezione alcune tra le tante possibili declinazioni in ambito umanistico, artistico e scientifico del tema dell’anno del Piano Formativo del Collegio 2020/21:
la Resilienza
Tutti gli appuntamenti sono inseriti all’interno della nostra offerta formativa.
Qui sotto l’elenco degli incontri già svolti, con un sunto delle tematiche emerse nel dibattito con gli studenti e studentesse.
Il concetto di “antifragilità” è stato sviluppato da Nassim Nicholas Taleb, nell’eclettico volume Antifragile. Prosperare nel disordine (pubblicato in Italia da Il Saggiatore). Questo concetto mira a identificare una sorta di tassello ulteriore rispetto alla resilienza. La resilienza sarebbe dunque una fase intermedia, in cui chi la applica, una volta subito lo “scossone”, ritorna al punto di partenza. L’antifragilità invece è definita come una risposta evolutiva, per cui di fronte all’ostacolo o al fallimento non soltanto ci si rialza, ma anche si migliora, rinforzandosi.
Il lavoro di Vercelli muove nella direzione aperta da Taleb, sviluppando il concetto di antifragilità – originariamente applicato non soltanto agli individui ma anche ai sistemi economici e culturali – nel campo specifico della psicologia della prestazione umana. Ne risulta così una sorta di metodologia dell’antifragilità, particolarmente utile quando si tratti di situazioni in cui è richiesta una certa prestazione: sport, lavoro, studio, e così via. E tuttavia il concetto di antifragilità si estende in campo psicologico come possibile strumento per fronteggiare in generale stati di malessere dovuti a sensi di inadeguatezza, lutti, sentimenti di inferiorità.
L’incontro ha dunque esplorato questo concetto, in una prima fase mediante un workshop impartito dallo stesso Vercelli, e in una seconda grazie a una discussione partecipata in cui il concetto è stato analizzato dalla classe. In questa fase, anche per via delle specifiche sensibilità e competenze degli uditori, si è potuto non solo riflettere sull’antifragilità come tool psicologico, ma anche ragionare attorno ad essa criticamente in quanto concetto politicamente e socialmente rilevante, e quindi meritevole di essere osservato da diverse angolazioni.
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La contemporaneità è ossessionata nei confronti del futuro, forse come mai era successo prima nella storia umana. Il futuro è oggi un orizzonte di speranza, ma anche, più spesso, una sorta di giogo che si piega impietosamente sul presente, imponendoci una vita veloce ed estremamente mutevole sotto vari punti di vista. Il futuro è infatti anche un fenomeno linguistico, capace di cambiare il nostro modo di pensare il mondo presente e noi stessi.
All’interno di questo scenario si stagliano discipline nuove, come i future studies, ma anche diventa rilevante provare a esplorare il modo in cui i racconti di finzione, passati e presenti, hanno immaginato il futuro.
Immaginare il futuro è in effetti un’operazione complessa, che può essere addomesticata tramite specifiche tecniche e filosofie.
L’incontro è così stato dedicato da un lato a fornire all’aula gli strumenti critici per trattare l’orizzonte del futuristico e del futuribile come fenomeno complesso e bacino capace di restituirci particolari assetti identitari, economici, e culturali delle società; dall’altro invece si è fatto con le studentesse e gli studenti un piccolo laboratorio di speculative design & fabulation, mettendo alla prova la nostra capacità di immaginare il futuro uscendo da schemi predeterminati, per allargare gli orizzonti di visione e di possibilità.
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Tutti quanti abbiamo un volto, ma non di frequente ci troviamo a riflettere sulla ricchezza di significati che esso assume per noi. Il volto è un oggetto complesso, che ci viene dato dalla biologia, ma che culturalizziamo quotidianamente.
Attraverso il volto riconosciamo gli altri. Nel volto sono racchiusi i nostri sensi.
Con il volto esprimiamo i nostri sentimenti.
Il volto rivela noi stessi, e infatti tendiamo spesso a camuffarlo per ragioni di ordine estetico, ma anche con intenzioni più complesse, di natura politica e identitaria: ci trucchiamo, ci mascheriamo, ci modifichiamo attraverso interventi di chirurgia estetica e, più recentemente, algoritmica, mediante filtri e app di ogni genere e sorta.
Con l’avvento della pandemia l’economia percettiva dei volti è significativamente mutata.
L’obbligo di indossare le mascherine in luoghi pubblici ha riconfigurato profondamente la condivisa percezione del volto altrui e del volto proprio. Esperimenti recenti dimostrano, ad esempio, come il volto con la mascherina rimoduli la percezione delle emozioni di chi la indossa da parte di chi osserva.
L’incontro ha esplorato questi temi, da una prospettiva duplice: da un lato si sono fornite le competenze di base per intendere il volto come un apparato biologico, modificatosi nel corso dell’evoluzione umana attraverso dinamiche di exaptation. Dall’altro si è inteso far comprendere alla classe il molteplice valore del volto in seno alle comunità sociali.
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L’Italia vanta un patrimonio linguistico ricchissimo e a molti sconosciuto.
Di questo panorama fanno parte numerose lingue di minoranza, praticate in zone contenute, e a rischio di estinzione. Quando una lingua scompare, la sua perdita coincide con la dispersione di una intera eredità culturale.
Per questo motivo le lingue minoritarie necessitano di una tutela, la quale avviene tanto per vie giuridiche (attraverso norme non sempre limpidissime), quanto attraverso politiche culturali atte a mantenerle vive.
L’incontro è stato così dedicato all’esplorazione di questo tema, attraverso la lente peculiare della sociolinguistica.
Questa disciplina è stata introdotta e discussa con la classe in quanto particolare branca della linguistica che si occupa di studiare i modi attraverso i quali lingue e società si influenzano vicendevolmente. Le studentesse e gli studenti sono inoltre stati convocati attivamente a costruire la propria “autobiografia linguistica”, un primo documento che attesta la storia delle loro singole vite attraverso le lingue che hanno imparato, sentito parlare, amato e odiato.
Ne è emerso un quadro di straordinaria varietà, che apre alla possibilità di futuri approfondimenti, e che è possibile esplorare al seguente link
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Cibo, alimentazione, nutrizione, mangiare, commestibilità, convivialità, sono tutte parole al centro di molti dibattiti da diverso tempo.
La cosiddetta “cibosfera” è divenuta centrale sia nei media, dove spesso è trattata in termini esclusivamente polarizzanti (“vegani vs carnivori”, ad esempio), che nel mondo dei discorsi sociali in genere, in quello letterario, cinematografico, e senz’altro anche in quello accademico.
Parlare di cibo oggi non è più soltanto occuparsi di ciò che si mangia da un punto di vista nutrizionale o biologico, ma anche interrogarsi su temi fondamentali di natura identitaria ed etica.
Oggi attraverso il cibo ci distinguiamo, personalmente e culturalmente. Questo contesto così complesso e cangiante non è stato naturalmente esente dallo scossone della pandemia, che ha rimodulato in maniera drastica tutta una serie di pratiche prima piuttosto comuni.
La convivialità, ad esempio, è stata profondamente minata, sebbene in termini resilienti si siano trovate delle forme suppletive (ad esempio gli aperitivi online, le “cene dai balconi” e così via).
Le norme igieniche si sono fatte più stringenti.
Il senso dei luoghi è mutato drasticamente, essendo i supermercati – templi postmoderni del cibo – stati per molto tempo fra i pochi esercizi commerciali dove “passare il tempo” fuori dalla propria dimora.
Attorno a questo reticolo di temi legati alla cibosfera e alla sua intrinseca resilienza si è svolto l’incontro, riassunto attraverso quattro snodi chiave nella grafica che segue.
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I meme sono senz’altro una delle forme di comunicazione più diffuse nella società contemporanea.
Attraverso i meme, ovviamente, ridiamo, ma anche interpretiamo la realtà, acquisiamo informazioni, ci identifichiamo, scegliamo i nostri amici.
D’altro canto essi sono un oggetto misterioso: multiformi, polisemici, ambigui. Capire i meme oggi è un modo per aumentare sensibilmente la nostra capacità di orientarci nei flussi informativi in cui siamo, giocoforza, costantemente immersi.
L’incontro ha così costituito un importante momento di comune interrogazione su che cosa siano effettivamente i meme, su quale sia la loro forza, su come essi “agiscano” con noi e su di noi, e anche sui rischi dell’affidare in maniera così ampia e, a tratti incondizionata, i nostri orizzonti conoscitivi a questa specifica e cangiante modalità comunicativa, spesso descritta con la metafora un po’ ambigua della “viralità“.
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Le disuguaglianze di genere costituiscono un tema sempre più centrale e delicato nelle società contemporanee.
L’universo dei generi è un oggetto culturale complesso e oggi assai cangiante, cosa che dimostra un certo fermento culturale rispetto alla questione, la quale tocca molteplici sfere del vivere assieme nella società: la libertà o meno di sentirsi come si vuole e di amare chi si vuole, la sfera dei diritti, quella dei giudizi e dei pregiudizi, e così via.
L’incontro ha mirato a fornire alcuni strumenti specifici, attinti dal complesso panorama dei gender studies ma, prima ancora, inscritti metodologicamente all’interno di paradigmi sociologici, storici e semiotici, per orientarsi all’interno della questione osservandola prospetticamente. Ne è nato un sentito e fecondo dibattito, sin dall’inizio, attraverso la costruzione condivisa di una mappa mentale (nell’immagine i macrotemi che sono emersi e che sono stati toccati) che ha definito una serie di cluster semantici di rilievo, esplorati man mano nell’arco dell’incontro.
È emersa una comune percezione di estrema rilevanza del tema, che in questa occasione si è iniziato a perlustrare, ma che senz’altro meriterà ulteriori affondi.
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I flussi migratori costituiscono un fenomeno globale in aumento, con una forte incidenza sul tessuto socio-economico dei paesi che ne sono maggiormente interessati.
L’Italia è senz’altro uno di questi. Gestire un fenomeno di tale complessità significa doversi interfacciare con gruppi di persone con storie, culture, bisogni e provenienze diverse, ma eguale dignità umana.
Le conseguenze dell’incremento dei flussi migratori sono di tipo logistico e sociale, e in mancanza di risorse – siano esse economiche, di spazi abitativi, o anche solo di volontà – i risultati divengono gravi situazioni di irregolarità.
Sebbene questi fenomeni possano apparire come distaccati dalla vita di molti di noi, in realtà essi ricadono direttamente sui nostri consumi.
Dal sud al nord Italia infatti i braccianti che producono – nei campi e nei frutteti – le materie prime di cui ci cibiamo sono spesso migranti vittime di tratta, di sfruttamento, di caporalato, costretti in situazioni abitative ed esistenziali di forte precarietà.
Quando mangiamo un ortaggio di cui non conosciamo con esattezza la filiera produttiva, questo è con buona probabilità il risultato ultimo di un processo che è originato da una forma di sfruttamento. Ignorare questo dato è, in qualche misura, una forma di complicità.
L’incontro con Antonio Soggia e Virginia Sabbatini ha esplorato questo delicato tema mediante il racconto diretto dell’esperienza di chi, sia in sede istituzionale che sul campo, lavora per tentare di sanare quello che è un problema stratificato e innervato nel sistema di un’economia globalizzata. Il dibattito si è così animato, a partire da un cluster semantico costruito collaborativamente come prima forma di brainstorming. Si è trattato di un esercizio libero, di iniziale esplorazione del tema, e il risultato (che vedete) è stato poi riordinato durante l’incontro mediante una progressiva categorizzazione delle problematiche implicate dal fenomeno, da quelle logistico-gestionali, a quelle politiche e mediali.
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Nei momenti di clausura forzata essere resilienti vuol dire anche compiere operazioni cognitive complesse, come quella di risemantizzare il luogo in cui si è costretti illuminandolo di una luce diversa. Può così nascere una forma di letteratura sui generis, non più “odeporica” (cioè di viaggio) ma “anodeporica”, in cui il viaggio è mentale.
Diversi autori – li vedete nell’immagine – si sono succeduti dandoci esempi di questi viaggi interiori, e fornendoci delle vie per riconsiderare la nostra esperienza domestica. L’esplorazione dei loro racconti ha costituito il punto di partenza dell’incontro, per poi volgere lo sguardo al presente.
Molte altre strategie di “viaggi attorno alle nostre camere” si sono infatti sperimentate e si vanno sperimentando in questi mesi, tanto nate spontaneamente quanto frutto di metodologie originariamente applicate in altri campi e divenute utili per reggere il peso del lockdown (come abbiamo già visto nell’incontro dedicato alla gamification, ad esempio). In un contesto di crisi sistemica i “viaggi attorno alle nostre stanze” assumono così le dimensioni più svariate, dalla riscoperta di passioni dimenticate come il collezionismo al binge watching in quanto pratica di evasione dall’ordinario. Attorno a queste nuove pratiche, transitorie ma essenziali proprio per la loro matrice resiliente, si sviluppano anche nuovi mercati, relazioni, possibilità.
L’immagine rende conto in maniera visiva di alcuni degli elementi che sono entrati nel dibattito.
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Lo scenario pandemico ha ridefinito il nostro rapporto con le nuove tecnologie.
Queste, dal canto loro, non smettono di evolversi.
Ogni giorno emergono nuovi tool, che rendono effettuabili operazioni tecnicamente sempre più complesse in maniera sempre più semplice, anche da utenze poco alfabetizzate da un punto di vista informatico. Un esempio fra tutti: la videoconferenza. Quella che prima era un’operazione riservata a una nicchia di utenti specializzati è oggi una pratica sempre più diffusa, come risposta resiliente alle misure di distanziamento fisico.
Comprendere questo contesto inedito significa maturare competenze ibride, come quelle delle Digital Humanities, alle quali gli studenti sono stati introdotti durante l’incontro.
Si tratta di un nuovo modo di approcciarsi al mondo, che coniuga capacità tecniche specifiche a uno sguardo trasversale, attento alle dinamiche sociali e culturali che si intrecciano con l’utilizzo dei nuovi strumenti.
Il panorama di riferimento è quello dell’innovazione sociale, che passa anche attraverso l’appropriazione creativa e consapevole degli strumenti oggi alla portata di tutti, fondati su tecnologie complesse che vanno dalle reti generative avversarie (GAN) alle librerie TensorFlow.
L’incontro si è svolto in maniera partecipativa, non solo fornendo alla classe alcuni dei punti di partenza per collocarsi agevolmente nel nuovo crocevia aperto dal fecondo incontro fra materie tecniche e discipline umanistiche, ma anche sperimentando collegialmente alcuni tool online nel merito (Cloud Vision di Google, ai-writer.com, ganpaint.io, Nvidia playground…). L’immagine che segue raccoglie alcuni dei risultati.
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Il gioco è bello quando dura poco? Tutt’altro!
L’esperienza umana è intrinsecamente ludica, e attraverso il gioco tutti quanti non solo impariamo a maneggiare il mondo, ma anche siamo capaci di cambiargli significato.
Nel vasto campo del ludico si staglia la nuova branca della gamification. Con questa si definiscono tutte quelle strategie che inseriscono pratiche o meccanismi tipici del gioco all’interno di processi che prima gli erano estranei. “Gamificare” può essere quindi utile non solo per fidelizzare un certo target verso un certo brand, ma anche, ad esempio, per trovare modi creativi per superare il lockdown o risemantizzare il contesto pandemico.
La città poi, da un punto di vista ludologico, si trasforma in una grande plancia di gioco, le cui limitazioni possono essere riscritte dalle persone che la abitano nell’ottica di una rigenerazione urbana che è anzitutto la fondazione di nuove e consapevoli comunità.
Questi affascinanti temi sono stati esplorati attraverso una modalità interattiva. L’intero uditorio si è trovato a collaborare producendo, in diretta e, è proprio il caso di dirlo, giocando, le mappe qui sotto, che hanno fornito le direttrici su cui si è articolato l’incontro.
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L’immagine idilliaca dei piccoli comuni montani non rende onore agli sforzi amministrativi, civici e personali che sovrintendono al loro mantenimento. Si tratta in effetti di luoghi la cui gestione è problematica per svariate ragioni, anzitutto legate alla loro complessità geomorfologica.
Fra le questioni più cogenti in questo senso vi è senz’altro la depopolazione costante e apparentemente inarrestabile, che spesso si traduce in abbandono non solo dei boschi, ma anche in un’incuria graduale di questi ultimi, che può innescare effetti drastici nel caso di eventi avversi.
La ricchezza paesaggistica, naturalistica, storico-culturale, e in termini di biodiversità dei comuni montani e del loro territorio è direttamente proporzionale alla responsabilità che essi richiedono per essere curati.
Si tratta di beni comuni messi in crisi da fenomeni spesso inediti, e che convocano non solo la resilienza dei cittadini e del territorio stesso (una risorsa questa preziosa, ma non inesauribile), ma anche la necessità di progettare politiche socioeconomiche lungimiranti che sperimentino nuovi e flessibili modelli di sostenibilità.
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Il sistema culturale cinese costituisce un complesso e stratificato insieme di pratiche, che spesso si espletano in una tensione fra tradizione millenaria e impulso contemporaneo alla modernità.
Ciò vale anche per quello che concerne la cultura della salute, della sanità, della medicina, del benessere.
Questi temi, nell’odierno mondo globalizzato, e per di più nell’era della pandemia, divengono particolarmente rilevanti poiché configurano una visione diversa della malattia e della cura rispetto a quella occidentale. Tale diversità esiste, eppure una riflessione più approfondita permette anche di vedere i punti di contatto fra le due “semiosfere”.
Con Jia Peng si è riflettuto su tutto ciò, a partire da un’analisi delle politiche di gestione da parte del dottor Wu Lien-teh dell’epidemia in Manciuria del 1910. Si tratta di un episodio lontano nel tempo e nello spazio, in Occidente poco conosciuto, e che pure ha consentito l’instaurarsi di uno spontaneo dibattito che ci ha portato fino ai giorni nostri a considerare in che modo eventi di crisi sistemici ci convochino chiedendoci alle volte di mutare interi paradigmi, di riconsiderare il nostro vissuto, e anche di provare ad adottare una lettura condivisa del problema con culture lontane dalla nostra.
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In epoca di pandemia è più che mai essenziale riflettere su alcune nozioni che regolamentano non solo il nostro privato, ma anche i modi di funzionamento di organismi complessi come le comunità e le macropolitiche di governo di intere società.
Salute, benessere, cura, terapia.
Attorno a questi temi si è concentrato il secondo appuntamento di Saturday Morning Live, da cui è scaturita la mappa di temi che qui sono riassunti per parole chiave.
Queste descrivono la necessità dello sviluppo di un’idea di salute come bene comune, che prevede per essere custodito e preservato il lavoro compartecipato di diversi attori sociali, discipline, e una prospettiva condivisa di tipo comunitario.
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Il dibattito fra specismo e antispecismo chiama in causa una congerie di problematiche che interrogano tanto i nostri più comuni comportamenti quotidiani quanto i più profondi orizzonti etici che orientano le nostre vite.
Mettere ordine in questo intricato contesto, cogente più che mai in un ciclo di incontri che analizza il presente sotto la lente del concetto di resilienza, significa anzitutto provare a rimettere in discussione alcuni paradigmi dominanti nella nostra cultura.
La mappa presentata è il risultato di un brainstorming effettuato con un focus group composto da studenti interuniversitari, a partire dalle suddette premesse.
I risultati restituiscono un quadro necessariamente parziale ma rilevante, sia dei temi spontaneamente emersi nel corso del dibattito iniziale, sia delle domande che ne sono derivate nella fase di discussione con il relatore e di successivo debrief.
Tali domande, qui riassunte per macrocategorie, buzzword, e opposizioni dicotomiche, sono giocoforza destinate a rimanere aperte, e costituiscono la disseminazione per un terreno fertile di interrogativi, utile a porre in essere una riflessione estesa sul nostro rapporto, sulle politiche relazionali e sulle loro conseguenze, con gli animali non umani, e più estensivamente con chi è altro da noi.